Parola d’Artista
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Gabriele Landi: Ciao Federico, Ad un primo sguardo le tue sculture sembrano forme contratte su se stesse che rapporto cerchi con lo spazio in cui le collochi?
Federico Fusj :Il rapporto lo cerco con lo spazio che verrà, o che diviene. I pezzi che faccio generano spazio, modificano l’ambiente a partire da loro stessi. Sono cioè generatori o in certi casi rinnovatori di spazio.
Gabriele Landi: La scelta del marmo inevitabilmente si porta dietro un confronto con la millenaria tradizione della scultura. La senti come un peso oppure no?
FF: Diciamo che… il peso lo sente chi subisce qualcosa…o anche chi emula qualcosa o qualcuno. So di avere una posizione differente rispetto a queste due categorie …Piuttosto potrebbe aprirsi un interrogativo da questa tua domanda: la tradizione in arte è legata alla materia/tecnica o al pensiero con cui si approccia la stessa?
Gabriele Landi:Rispetto alla domanda che formuli alla fine della tua risposta tu come ti poni?
FF: Mi chiedo se posso o meno condividere lo schema che classifica, qualche, materia come tradizione o tradizionale. Parole che hanno origine nel termine tradire e che è finalizzato al conservare in vita. La materia, tutta, per me è semplicemente materia lo era ieri, lo sarà domani. Chiediamoci, piuttosto se la materia sia solo esistente o anche risultante? Dipende… Tradizione o tradizionale può essere invece il modo in cui la si considera all’interno del pensiero di approccio l’arte. Questo può indurre a considerare la materia come tradizione ma se guardiamo bene, in realtà, ad essere tradizione e tradizionale è proprio il pensiero stesso attraverso il quale si legge la materia. Se guardiamo all’arte che si è prodotta fino ad oggi e che ancora si produce, mi chiedo se non possa essere, nel suo intero arco, interamente definibile come tradizione e
tradizionale. Pare come nata, cioè, da una stessa matrice filosofico religiosa, indipendentemente dalle latitudini in cui si è prodotta. Matrice che potremmo antropologicamente definire “animistica”, la quale ha nell’uomo e tramite l’uomo, attuato la riproduzione, sostitutiva/integrativa, del dato visibile e tangibile. Perseguendo una idealizzazione anche inconscia del reale portandolo ad essere ideale. Ovvero attribuendogli valore di causa e non di prodotto derivato quale oggettivamente ha. In altre
parole facendone un ideale, un idolo…
Parliamo di un ideale sia iconografico che iconico o anche materico che riempisse un dato mancante. Quello appunto della perfezione, che l’uomo non riscontrava nella vita di tutti i giorni e che ancora oggi in larga parte non riscontra.
Ciò parrebbe riconducibile, da un certo punto di vista, ad una presunta convinzione, dell’uomo, che la sua stessa presenza sulla terra sia attribuibile a fatti accidentali o naturali o di bizzarria insondabile o addirittura al credere di aver scelto lui stesso di nascere….
Questa posizione genera un’ansia personale e sociale ed una costante condizione di bisogno da colmare con qualcosa di ideale, sia pure con la rappresentazione-riproduzione della stessa realtà quotidiana nei suoi vari aspetti.
L’uomo si è sempre considerato bisognoso di aiuto. Aiuto che ha cercato di ottenere ricorrendo appunto a pratiche di vario genere.
In nome di questo essere bisognoso ha prodotto capolavori artistici che tacitassero questo buco nero interiore. Capolavori prodotti in nome di culti raffinatissimi, quanto improbabili.
Una vera inter culturalità di fatto è stata raggiunta con questo atteggiamento.
Questo ha generato a mio avviso quella tradizione di approccio che è in parte sopravvissuta fino a noi. Un approccio all’arte da bisognosi, da postulanti. Inseguitori di bisogni spesso incomprensibili, di sicurezze e quindi: di tradizioni.
Però storicamente succede un fatto nuovo che cambia la prospettiva generale di lettura e e non solo… Si legge che un uomo inizia a sentire in se qualcosa di autentico e gli si pone il dubbio sulla tradizione, quindi esce da questa dimensione di bisogno. Guarda caso un uomo di una cultura artisticamente evolutissima. Mi riferisco ad Abramo o Abrahamo.
Abramo esce dalla dimensione della cultura del bisogno per entrare nella prospettiva del servizio (servizio a chi?) rompendo con la visione tradizionale e con i bisogni tradizionali compresi quelli artistici. E vive lui, suo figlio e i suoi nipoti in una dimensione di non bisogno ma di continua esperienza rivelatoria della realtà. Se leggiamo la storia, e sottolineo storia, di Abrahamo e dei suoi primi congiunti non incontriamo nessun dato
artistico proprio, rispetto invece ai loro vicini di casa, costruttori di idoli e statue: oggetti attraenti e vettori di dipendenza. Una diversa prospettiva, quantomeno.
Fino poi a Giacobbe, il quale compie un gesto primigenio letteralmente di avanguardia.
Innalza, in un campo, una pietra su cui aveva poggiato la testa per dormire e ci cola sopra dell’olio lasciandola nella nuova posizione. Decontestualizza un elemento dal paesaggio lo segna con un derivato e lo ricontestualizza. Ma non in funzione evocativa, attrattiva e convenzionale quanto piuttosto mnemonica, testimoniale, personale. Solo potenzialmente in funzione sociale ma con nessuna certezza a riguardo. Lo fa quindi per se, perchè in
quel posto ha vissuto un’esperienza invisibile che gli apre e gli conferma la prospettiva di vita.
Ecco che si perde il bisogno e si acquista finalmente il servizio anche in termini artistici.
Crea un’opera che non è sostitutiva di una realtà. La pietra non è elemento linguistico bensì testimoniale. L’olio che ha assorbito di fatto l’ha segnata per sempre…Non è contenutisticamente importante, ma è insostituibile sul piano dell’opera.
Quella pietra, e non un’altra. Ma, sarebbe potuta essere un’altra e sarebbe stata valida ugualmente così come l’olio. Il focus qui è infatti l’esperienza in relazione allo scopo e non la produzione di un’ esperienza. Giacobbe scopre che non è bisognoso bensì immerso in una realtà invisibile viva e completa con effetti sul visibile. Questi fatti cambiano il corso della storia e (per me) anche il modo di realizzare un’opera.
Venendo a noi, il fatto che, io, scolpisca il marmo, non è una scelta linguistica o di genere, che per altro potrei anche dialetticamente sostenere. Ma è il frutto di un incontro. Incontro con la mia libertà avvenuto un po’ di anni fa’, nel 1979 una mattina di luglio in Provenza quando ero ospite di amici di famiglia che avevano una grande marmeria – laboratorio.
Camminando tra le lastre di quel materiale mai guardato prima, tra quelle fette di carne terrestre di cui ognuna era un colore unico, ho sentito che ero libero. Ho respirato per la prima volta una vita che non aveva limiti e che sentivo dentro di me ed intorno a me presente e vera più di ogni altra cosa. Una vita che non mi chiedeva niente. Solo proponeva di essere vissuta.
Ho deciso di assecondarla e dopo pochi giorni ho lasciato i miei coetanei mi sono avvicinato ai tagliatori di pietra, gente forte, coperta di polvere che sembrava sempre giovane e che mi ha insegnato a stare davanti al pezzo. A starne a distanza. A prevedere il visibile con la geometria dell’invisibile.
Per questo non mi pongo verso una materia. Mi pongo verso un luogo testimoniale dell’incontro con la mia libertà. Testimoniale dell’uscita dalla dimensione di bisognoso per entrare in quella di servizio alla mia libertà stessa. Un incontro dinamico che si rinnova nel tempo e diviene allora testimonianza in divenire da cui nasce un imprevedibile servizio
verso gli altri. Scopo della mia presenza qui su questo pianeta. Scopo, e sottolineo servizio, che non ho scelto e che in questo rende me libero di compierlo e gli altri di accettarlo o meno. L’incontro con la vera libertà alla liberazione dagli e degli altri…
Ed anche libero dalla tradizione basata sul bisogno di avere ciò che non si è. La scultura in marmo in fondo ha una sua forte radicalità, è solo il risultato di un sasso battuto. Un sasso, piccolo difronte all’universo, che può sbriciolare il gigante dai piedi d’argilla dei luoghi comuni.
Gabriele Landi:In quali opere di altri artisti ritrovi questo atteggiamento animista?
FF:L’artista volente o no, si muove afferendo o attingendo o negando la cultura di suo riferimento. Quindi parlerei piuttosto non di atteggiamento di singoli quanto di atteggiamento comune alle culture umane, quelle cioè nate dall’uomo. Atteggiamento che è filtrato poi anche in quelle che potremmo definire rivelate, le culture conseguenti di ciò che all’uomo si è rivelato. Avvenendo in questo un processo molto simile a quello dell’ellenizzazione che in epoca classica, investì le culture mediterranee. Potremmo vedere questo atteggiamento come la vera inter culturalità che influenza il clima del pianeta, poiché l’arte influenza il clima interiore ed esteriore dell’umanità. Ma non sempre il clima aiuta, come sperimentiamo in questo tempo…
Gabriele Landi: L’uso del colore nel tuo lavoro sembra invece influenzarne la temperatura. Che valore gli attribuisci?
FF: Intanto non utilizzo più il termine colore a riguardo del mio lavoro. Utilizzo invece il termine materia. Colore è per me un termine nominale, classificativo, commerciale, convenzionale. Materia anche può essere definito tale ma lo sento più connesso con ciò che pratico. Se si guarda poi alla natura non si incontrano colori, piuttosto materie che determinano in loro ciò che chiamiamo comunemente colore o colori.
All’inizio del mio lavoro dicevo che “il colore è la forma”. Lo sostengo anche oggi aggiungendo che “la materia è il colore”. A me interessa il timbro che porta la materia. Infatti uso delle materie per ciò che danno come risultante cromatica e non come ingrediente tecnico. Per certi lavori uso alcune materie e per altri altre.
Non cerco un’immagine o comunque un riferimento ad essa,
quindi non ho da creare nessun rifacimento o adattamento o traduzione. Con
questo mi trovo appunto vicino a quello che tu chiami temperatura. Termine
questo sul quale concordo. Quando prima ho parlato di generare un’ambiente mi
riferivo anche a questo, un ambiente è necessariamente connesso con la
temperatura. Questo avviene sia nella scultura che nelle carte, lavori su
cui sono concentrato in questo momento. In
scultura il rapporto con la temperatura avviene a partire dal pezzo, vi è una
selezione molto rigida dei pezzi, ho riaperto filoni di cava estinti da decenni
perché andavo cercando un particolare marmo che producesse quella temperatura
cromatica, quel suono visivo… La materia viene poi performata con delle finiture
precise che producono si delle temperature, ma queste finiture sono anch’esse
materia. Dico materia e non tecnica con coscienza, e sapendo di attuare quasi
una contraddizione in termini. Lo faccio perché mi interessa essere fuori dal
processo artigianale o di studio che prevede una tecnica o comunque un traslato
tecnico.
Non ho mai voluto essere, da questo punto di vista, un
artista con lo studio, l’ufficio, gli assistenti.
Mi sono invece sempre sentito vicino alla
performance o alla chirurgia o alla liturgia che sono poi abbastanza comuni. La
scultura, lo scolpire è per me la summa della performance e quindi la tecnica è
all’occorrenza. Proseguendo nel ragionamento possiamo anche dire che la
performance è connessa con la temperatura. Ma anche con lo spazio sia agito
che, parlo per me, generato. La scultura per me si fa respirando.
Il mio respiro scolpisce, non il mio braccio. Il respiro è connesso con la temperatura. Mi interessa che i pezzi respirino, perché vedi Gabriele, la scultura non è quello che appare ma è quello che si trova tra ciò che appare. Lo spazio che c’è tra quello che si vede e non quello che si vede. Quello che si vede è un risultato. L’altro è il senso. Un po come leggere tra le righe che significa capire il senso di ciò che si legge….quindi uno scrittore, se vogliamo,scrive tra le righe.
Il fatto è, che è determinante fare giustamente ciò che si
vede, è
importante scrivere giustamente per poter far
leggere tra le righe.
Chiediamoci cosa può voler dire giustamente? Può
voler dire fare ciò che è necessario veramente. A cosa? Alla vita, rispondo io.
La vita è proprio ciò che sta tra le righe, ciò che non occupa spazio perché
ciò che occupa spazio è ciò che esiste mentre la vita è.
Tra esistenza e vita c’è differenza. Tutti esistono ma non tutti vivono… Qui si entra nel campo delle conseguenze, delle scelte….non in quello dello spazialismo, giacché in quel senso lo spazio, il vuoto, l’immateriale è inteso come pieno perché è inteso appunto come scrittura… è reso ed inteso intellegibile. Per le carte è lo stesso solo cambia la materia.
Gabriele Landi: Leggendo fra le righe di quello che dici sulla temperatura mi sembra che affiori il tuo temperamento esiste un legame fra temperatura e temperamento?
FF: Intanto sono contento che non emerga la tempera a guazzo o il tempura…che sono due articoli che conosco ma con i quali non mi sento connesso da protagonista…poi diciamo pure che il temperamento è dato da una temperatura. Come nel metallo, che viene scaldato poi freddato per ottenere un temperamento. Quindi direi che il legame esiste, un legame di conseguenza, siamo sempre in quell’area li…
Gabriele Landi:La parola che cinge le tue opere in qualche modo sembra nutrirle di una particolare linfa vitale e allo stesso tempo sembra ricollegarsi alle immagini sacre del passato dei dipinti della grande scuola senese. Che significato ha per te?
FF:La parola è immediata e quando è scolpita lo è anche di più. La parola, questa parola, ha il potere di creare. Ecco allora che è l’opera ad essere insieme creatrice e creata.
Creando nutre, perché chi crea anche nutre, è un assunto di fiducia. Possiamo anche aggiungere che l’evoluzione qualunque essa sia, può essere risultato del nutrimento più che dell’adattamento
Per me ha questo significato, di essere cioè un’opera in nuova continua creazione, che nutre chi nella libertà ne fruisce. Nutre di ciò di cui si nutre, come avviene nella vita del resto.
Poi un giorno ho scoperto di nuovo che anche nell’arte senese c’era l’uso della parola, ma non scolpita, semmai incisa quindi una parola signica, indicativa di percorso, politica più che testimoniale se vogliamo. Ma al negativo cioè non logorroica come invece lo è ai nostri giorni mischiata a tutte le parole che scorrono a fiumi, tutte affermative tutte piene,
senza nessun vuoto. Dove per vuoto si intende lo spazio tra una parola ed un’altra. Spazio che è dove risiede il significato della parola stessa, secondo quanto dice una tradizione afferente all’Insegnamento. Per questo a me interessa fermare la parola, lettera accanto lettera. Annullare lo spazio per fare un fregio che è già spazio in se, tagliente come una lama, che si faccia spazio in chi legge e con questo produca il senso della parola in lui
stesso…in un piano ulteriore, non ribaltato bensì trovato. L’uscita dal chiasmo del linguaggio rappresentativo verso una dimensione di ulteriorità ubicativa tutt’affatto spirituale ovvero indirizzata verso quella componete universale dell’uomo che è il suo spirito (diverso l’anima), quella parte vera, cioè sacra dell’essere.
Potremmo dire che il collegamento può esserci ma non si vede…
Che significato ha la parola scritta nel tuo lavoro?
La parola ha per me significato urbanistico nell’economia formale del lavoro, significato di infrastruttura, se vogliamo. Possiamo allora rispondere con il chiederci: che significato hanno le strade nella città? Quale, lo hanno, i ponti?
Dicembre 2019- Maggio 2020
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Gabriele Landi: Hi Federico, at a first glance your sculptures seem to be forms contracted on themselves, what relationship do you look for with the space in which you place them?
Federico Fusj: I look for the relationship with the space that will come, or that becomes. The pieces I make generate space, they modify the environment starting from themselves. In other words, they are generators or in some cases renewers of space.
Gabriele Landi: The choice of marble inevitably brings with it a comparison with the millenary tradition of sculpture. Do you feel it as a burden or not?
FF:Let’s say that… the weight is felt by those who are subjected to something… or even those who emulate something or someone. I know that I have a different position with respect to these two categories… Rather, this question of yours could raise a question: is tradition in art tied to the material/technique or to the thought with which it is approached?
Gabriele Landi: With respect to the question that you formulate at the end of your answer, how do you position yourself?
FF: I wonder whether or not I can share the scheme that classifies some materials as tradition or traditional. Words that have their origin in the term betray and that is aimed at keeping alive. Matter, all matter, for me is simply matter: it was yesterday, it will be tomorrow. Let us rather ask ourselves if matter is only existing or also resulting? It depends… Tradition or traditional may instead be the way in which it is considered within the thought of approaching art. This may induce us to consider matter as tradition, but if we look closely, in reality, what is traditional and traditional is precisely the very thought through which matter is read. If we look at the art that has been produced until today and that is still being produced, I wonder if it cannot be, in its entire arc, entirely definable as tradition and
traditional. It seems as if it originated from the same philosophical-religious matrix, regardless of the latitudes in which it was produced. A matrix that we could anthropologically define as “animistic”, which has, in man and through man, carried out the substitutive/integrative reproduction of the visible and tangible datum. Pursuing an idealization, even unconscious, of reality, bringing it to be ideal. That is, attributing to it a value of cause and not of derived product which objectively has. In other words words, making it an ideal, an idol…
We are talking about an iconographic or iconic ideal or even a material ideal that would fill a missing datum. That of perfection, which man did not find in everyday life and still does not find in large part today.
This would seem to be due, from a certain point of view, to a presumed conviction, of man, that his very presence on earth is attributable to accidental or natural facts or unfathomable bizarreness or even to the belief that he himself chose to be born….
This position generates a personal and social anxiety and a constant condition of need to be filled with something ideal, even if with the representation-reproduction of the same daily reality in its various aspects.
Man has always considered himself in need of help. Help that he has tried to obtain by resorting to practices of various kinds.
In the name of this needy being, he has produced artistic masterpieces that would silence this inner black hole. Masterpieces produced in the name of cults as refined as improbable.
A true inter-culture has been achieved with this attitude.
This has generated, in my opinion, that tradition of approach that has partly survived to us. A needy, postulant approach to art. Chasers of often incomprehensible needs, of certainties and therefore of traditions.
But historically, a new fact happens that changes the general perspective of reading, and not only that… We read that a man begins to feel something authentic in himself and doubts are raised about tradition, so he comes out of this dimension of need. It happens to be a man of an artistically evolved culture. I am referring to Abraham or Abrahamo.
Abraham comes out of the dimension of the culture of need and enters into the perspective of service (service to whom?) breaking with the traditional vision and traditional needs including artistic needs. And he, his son and his grandchildren live in a dimension of non-need but of continuous revelatory experience of reality. If we read the history, and I emphasize history, of Abraham and his first relatives, we do not find any artistic data of our own. Compared to their neighbors, builders of idols and statues: attractive objects and vectors of dependence. A different perspective, at least.
Then there is Jacob, who makes a primordial gesture that is literally avant-garde.
He raises, in a field, a stone on which he had laid his head to sleep and pours oil on it, leaving it in its new position. He decontextualizes an element from the landscape, marks it with a derivative and recontextualizes it. But not in an evocative, attractive and conventional function, but rather in a mnemonic, testimonial and personal one. Only potentially in social function but with no certainty about it. So he does it for himself, because in
he has had an invisible experience in that place that opens up and confirms his perspective on life.
Here we lose the need and finally acquire the service also in artistic terms.
He creates a work that is not a substitute for reality. Stone is not a linguistic element but a testimonial one. The oil it has absorbed has marked it forever… It is not important in terms of content, but it is irreplaceable in terms of the work.
That stone, and not another. But, it could have been another and would have been just as valid as the oil. The focus here is in fact the experience in relation to the purpose and not the production of an experience. Jacob discovers that he is not in need but immersed in an invisible reality that is alive and complete with effects on the visible. These facts change the course of history and (for me) also the way of making a work.
Coming to us, the fact that I sculpt marble is not a linguistic or gender choice, which I could also dialectically support. But it is the result of an encounter. An encounter with my freedom that took place a few years ago, in 1979, on a July morning in Provence, when I was the guest of family friends who had a large marble workshop.
Walking among the slabs of that material never looked at before, among those slices of earthly flesh of which each was a unique color, I felt that I was free. For the first time I breathed a life that had no limits and that I felt inside me and around me, present and true more than anything else. A life that asked nothing of me. It only proposed to be lived.
I decided to go along with it and after a few days I left my peers and approached the stone cutters, strong people, covered in dust who always looked young and who taught me to stay in front of the piece. To stand at a distance from it. To predict the visible with the geometry of the invisible.
This is why I do not place myself in front of a material. I aim at a place that bears witness to the encounter with my freedom. Witnessing the exit from the dimension of the needy to enter into that of service to my freedom itself. A dynamic encounter that is renewed over time and then becomes a witness in the making from which an unpredictable service to others is born.
towards others. Purpose of my presence here on this planet. A purpose, and I stress service, that I did not choose and that in this way makes me free to carry it out and others free to accept it or not. The encounter with true freedom to liberation from and of others….
And also free from tradition based on the need to have what one does not have. Marble sculpture has its own strong radicality, it is only the result of a beaten stone. A stone, small in front of the universe, that can crumble the clay-footed giant of commonplaces.
Gabriele Landi: In which works by other artists do you find this animist attitude?
FF:The artist, willingly or not, moves grasping or drawing or denying the culture of his reference. So I would rather speak not of an individual attitude but of an attitude common to human cultures, those born from man. This attitude has then filtered into what we might call revealed cultures, the consequent cultures of what has been revealed to man. This process is very similar to that of Hellenization, which in the classical era affected Mediterranean cultures. We could see this attitude as the true inter-culturality that influences the climate of the planet, since art influences the inner and outer climate of humanity. But the climate does not always help, as we experience in this time….
Gabriele Landi: The use of color in your work seems to influence the temperature instead. What value do you attribute to it?
FF:I no longer use the term color in my work. I use the term matter instead. Color is for me a nominal, classificatory, commercial, conventional term. Matter can also be defined as such, but I feel it is more connected to what I practice. If you then look at nature, you don’t encounter colors, but rather materials that determine in them what we commonly call color or colors.
At the beginning of my work I said that “color is form”. I still maintain this today, adding that “the matter is the color”. I am interested in the stamp that matter carries. In fact, I use materials for what they give as a chromatic result and not as a technical ingredient. I use certain materials for certain works and others for others.
I don’t look for an image or a reference to it, so I don’t have to create any remake or adaptation or translation. With this I am close to what you call temperature. This is a term with which I agree. When I spoke earlier about generating an environment I was also referring to this, an environment is necessarily connected with temperature. This happens both in sculpture and in papers, works on which
which I am concentrating on at the moment. In sculpture, the relationship with temperature begins with the piece, there is a very strict selection of pieces, I reopened veins of quarries that had been extinct for decades because I was looking for a particular marble that would produce that chromatic temperature, that visual sound… The material is then performed with precise finishes that produce temperatures, but these finishes are also matter. I say matter and not technique with awareness, and knowing that I am almost implementing a contradiction in terms. I do this because I am interested in being outside the process of craftsmanship or study that involves a technique or a technical translation.
I have never wanted to be, from this point of view, an artist with a studio, an office, or assistants.
Instead, I have always felt close to performance or surgery or liturgy, which are then quite common. Sculpture, sculpting, is for me the summa of performance and therefore the technique is necessary. Continuing the reasoning we can also say that performance is connected with temperature. But also with space, both acted and, speaking for myself, generated. For me, sculpture is made by breathing.
My breath sculpts, not my arm. Breath is connected with temperature. I am interested in the pieces breathing, because you see Gabriel, sculpture is not what appears but it is what is between what appears. The space between what is seen and not what is seen. What you see is one result. The other is the meaning. A bit like reading between the lines which means understanding the meaning of what you read….so a writer, if you will, writes between the lines.
The fact is, it is crucial to do rightly what you see, it is
it is important to write rightly in order to make people read between the lines.
Let’s ask ourselves what can rightly mean? It can mean doing what is truly necessary. To what? To life, I answer. Life is precisely what is between the lines, what does not take up space because what takes up space is what exists while life is.
There is a difference between existence and life. Everyone exists but not everyone lives… Here we enter the field of consequences, of choices….non in that of spatialism, since in that sense space, the void, the immaterial is understood as full because it is understood as writing… it is made and understood intelligible. It is the same for cards, only the material changes.
Gabriele Landi: Reading between the lines of what you say about temperature, it seems to me that your temperament emerges. Is there a link between temperature and temperament?
FF: First of all, I am happy that tempera a guazzo or tempura do not emerge…they are two articles that I know but with which I do not feel connected as a protagonist…then let’s say that temperament is given by a temperature. Like in metal, which is heated then cooled to get a temperament. So I would say that the connection exists, a connection of consequence, we are always in that area there….
Gabriele Landi: The word that surrounds your works somehow seems to nourish them of a particular lifeblood and at the same time it seems to reconnect to the sacred images of the past of the paintings of the great Sienese school. What does it mean to you?
FF: The word is immediate and when it is sculpted it is even more so. The word, this word, has the power to create. This is why the work of art is both creator and created.
By creating it nourishes, because whoever creates also nourishes, it is an assumption of trust. We can also add that evolution, whatever it is, can be the result of nourishment rather than adaptation.
For me, it has this meaning, that is to say, to be a work in continuous new creation, which nourishes those who, in their freedom, enjoy it. It feeds on what it feeds on, as happens in life after all.
Then, one day, I discovered once again that even in Sienese art there was the use of the word, but not sculpted, but rather engraved, therefore, a signic word, indicative of a path, more political than testimonial, if you will. But in the negative, i.e., not verbose as it is today, mixed with all the words that flow in rivers, all affirmative, all full,
without any void. Where void means the space between one word and another. Space that is where the meaning of the word itself resides, according to what is said by a tradition afferent to the Teaching. This is why I am interested in stopping the word, letter by letter. To annul the space in order to make a frieze that is already space in itself, sharp as a blade, that makes space in the reader and with this produces the meaning of the word in himself… on a further level.
himself…in a further plane, not overturned but found. The exit from the chiasm of the representative language towards a dimension of ulteriority that is all spiritual, that is addressed towards that universal component of man which is his spirit (different from the soul), that true part, that is sacred of being.
We could say that the connection can be there but it cannot be seen…
What meaning does the written word have in your work?
For me, the word has an urbanistic meaning in the formal economy of the work, a meaning of infrastructure, if you will. We can then respond by asking ourselves: what meaning do roads have in the city? What meaning do bridges have?
December 2019- May 2020
Questa intervista è stata realizzata per il blog Parola d’Artista tra il dicembre 2019 e il maggio 2020 da quella data è li pubblicata / This interview was conducted for the Parola d’Artista blog between December 2019 and May 2020 since that date it has been published there